giovedì 29 settembre 2016

I mille volti della sovversione: enorme opportunità storica o anticamera di sempre nuovi reazionari? La rivoluzione vista da Emma Goldman, la rossa, nella nuova biografia dell'Elèuthera.

 In rete circola da un bel po' una frase attribuita a Sandro Pertini (ma non sua, come non è di Voltaire la famosa frase "Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere" e ci tengo sempre a sottolinearlo): "Quando un governo non fa quello che vuole il popolo, va cacciato via con le mazze e con le pietre". 

 Le ragioni di questa moda vanno da ricercarsi in quella parola ambigua (e da sempre molto in voga, ma ultimamente di più) che è sovversione. 

La celeberrima vignetta di Andrea Pazienza
 Ambigua perché, nonostante sul momento dia l'impressione di contenere un'accezione solamente negativa, in realtà ha anche sfumature positive e molti pensano che appunto incarni una di esse. 

 La giusta sovversione (a occhio): il popolo che tradito si ribella a un ordine che disconosce in quanto traditore.

 Sembrerebbe tutto molto semplice, ma il confine tra il positivo e il negativo è molto vago e alberga in numerose domande che l'aspirante sovversivo dovrebbe porsi.

  In primis: chi è il popolo? Come si fa a decidere che la maggior parte della popolazione è d'accordo con quanto fa o non fa il governo eletto?

  E cosa succede se quello che vuole la maggioranza è un'aberrazione, come successo durante il nazismo il fascismo?

 Cosa succede, come nel caso della Brexit, se il popolo il giorno prima vota una cosa e il giorno dopo, in parte, si pente? Si fanno referendum giornalieri per decidere quel giorno cosa pensa il popolo? E coloro che deliberatamente scelgono di non votare, non discutere, non far sentire la propria voce, hanno diritto o meno di usare le succitate pietre?

Una foto del "popolo"
 La sovversione, in astratto è un atto che può aprire grandi possibilità: l'ordine precostituito ha sempre dei padroni, una classe dominante, un qualcuno che detiene in forza di eredità, di consuetudini, di leggi che riteniamo ingiuste, di favoritismi economici e sociali magari anche secolari.

 Sovvertire il sistema, interrompendo tale dominazione può essere positivo, come può essere positivo introdurre nuovi valori o una nuova cultura in quella vecchia eppure preminente.
 Il patriarcato, per esempio, ha dominato per secoli (e ancora sta lì che resiste con le unghie e con i denti), le lotte femminili in qualsiasi secolo e in qualsiasi luogo sono state una grande forma di sovversione (e secondo me rimangono tuttora il nodo fondamentale della gran parte dei problemi di questo mondo) che ha portato ha cambiamenti molto positivi.

 Esiste una sovversione pacifica? D'istinto diremmo di no, ma è qui che ci viene incontro l'ambiguità della parola

 Sovversione è rovesciare l'ordine precostituito.

 Fu sovversione la resistenza passiva come fecero gli uomini che rivendicarono l'obiezione di coscienza al servizio militare negli anni '70. 
 Lo fu il No di Franca Viola che si oppose (appoggiata da suo padre, autore in tal senso anch'esso di un gesto sovversivo) al matrimonio riparatore col suo stupratore.
E' un'enorme utopia, un'enorme responsabilità, talmente enorme che la stragrande maggioranza delle volte rischia di bruciarsi e diventare un'incarnazione anche peggiore del sistema che voleva combattere. Perché questo accade?

 Il discorso, complesso e secondo attualissimo,  è secondo me il vero focus della biografia di Emma Goldman "Emma la rossa" ed, Eleuthera, uscita da poche settimane.
 La Goldman è una di quelle figure cardine del '900 sebbene purtroppo un po' dimenticata, un'ebrea russa costretta sin da giovanissima a lavorare in fabbrica che si trasferì in America per sfuggire al giogo paterno e lì divenne fieramente anarchica.
 La sua fu un'esistenza costellata da molti amori e molte battaglie, nessuna esaltante vittoria eppure, parafrasando il libro di Cacucci, in ogni caso nessun rimorso.
  Migrante russa e lavoratrice americana, giovane sposa e giovane divorziata, protosindacalista che si batteva per i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che pagò con la prigione (che trovò come Goliarda Sapienza un luogo rivelatore), scrittrice, giornalista, instancabile relatrice di infiniti comizi in giro per gli Stati Uniti, fu nella Russia bolscevica, nella Spagna che soccombeva al fascismo fanchista e morte la colse in Inghilterra mentre cercava fondi per la causa.

 Ma, a mio parere, di tutta la sua vita, un episodio è più rivelatore di altri e si collega al discorso a monte.
  La Goldman ebbe un'occasione che a pochi si concede nella vita; nella sua patria natale scoppiò la rivoluzione bolscevica. Il mondo cambiava davanti ai suoi occhi e, non solo, stava cambiando nella direzione verso la quale lei tendeva!


Non era bolscevica, non era comunista, era anarchica e pensava ovviamente che le differenze tra le due cose rimanessero enormi e sostanziali, ma non avrebbe mai pensato di vedere gli anarchici schiacciati molto più ferocemente dalla rivoluzione russa che dal capitalismo statunitense.

 Si imbarcò per le sue terre carica di enormi speranze che la sostennero nei mesi e negli anni a venire, lottò con forza per ritagliare uno scampolo di salvezza nella e alla rivoluzione e, pur concedendole dei meriti, scoprì che i demeriti si traducevano in perdite assai più gravi, come il bagno di sangue a seguito dello sciopero dei marinai della cittadina di  Kronstandt.

 L'episodio vide una cittadina di trentamila abitanti indire uno sciopero collettivo a seguito di un pesante razionamento dei viveri da parte del governo. Il punto di rottura (oltre al fatto che Lenin si vantasse che non c'erano scioperi nella nuova Russia sovietica perché il potere era direttamente al popolo) venne con le tredici rivendicazioni elaborate dalla cittadina.
 Esse smascheravano la "falsa sovversione" del nuovo sistema.

 "Noi sosteniamo il potere dei Soviet non dei partiti. Noi siamo per la libera elezione dei rappresentanti delle masse lavoratrici. I Soviet-fantoccio manipolati dal partito comunista sono sempre rimasti sordi di fronte ai nostri bisogni e alle nostre rivendicazioni (che prevedevano rielezione dei Soviet, libertà di parola, libertà di riunione, liberazione dei prigionieri politici specialmente di parte socialista ndr). Abbiamo ricevuto una sola risposta: la mitraglia [...]"

 Finì molto male, la ribellione venne soffocata nel sangue, non prima di un ultimo paradosso: l'esercito russo, chiamato a piegare la cittadina, si rifiutò di sparare in un corto circuito mentale che è semplice da immaginare. Si convinsero solo dietro stratagemma: un uomo venne presentato come un transfugo della città e disse loro che i ribelli non erano compagni rivoluzionari, ma banditi.

 Fu l'episodio che convinse Emma Goldman del fallimento della rivoluzione.

  Le fu quindi data la possibilità di vedere il sogno e di assistere alla sua disgregazione in una dittatura, in un'enorme gioco di potere, solo con altri protagonisti, altre motivazioni.

  Sarebbe interessante leggere i libri che successivamente la Goldman scrisse sull'argomento e che vennero stampati solitamente mutilati nelle parti in cui parlava di ciò che comunque si poteva salvare della rivoluzione.

 Sarebbe interessante per capire se aveva riflettuto su questo fallimento storico, se ne avesse data la colpa ai capi, Lenin e Trockij o a chi altro. Lo sarebbe perché forse permetterebbe di comprendere quale fosse il suo punto di vista sulla sovversione di massa.

 Perché il mio è molto pessimista ed è legato a un punto fondamentale da cui non riesco a smuovermi.

 Il punto è che per me le rivoluzioni falliscono perché a compierle sono gli esseri umani,che in quanto tali mostrano tutti i difetti della loro umana condizione: imperfezione e crudeltà d'animo innata.

  Non tutti nella stessa misura, non tutti nello stesso modo, ma la storia insegna che non è esistito periodo storico in cui non abbiamo dato esercizio della nostra spietatezza, in cui non abbiamo considerato sacrificabile qualcuno per la nostra sopravvivenza o il nostro benessere, in cui non abbiamo finito per trattare una parte dei nostri pari come fossero degli inferiori.


E' questo ciò che ci permette di distinguere una sovversione positiva da una negativa.

 Ci troviamo di fronte ad una sua incarnazione malvagia non solo quando è esplicitamente violenta, ma  quando essa si traduce solo in un altro potere precostituito che si limita a sostituire il precedente mantenendo il proprio potere tramite la sopraffazione dell'altro, con ogni mezzo.

 Quando la sovversione si limita ad essere una lotta tra chi riesce a imporre il proprio potere con più forza a discapito di qualcun'altro, allora non è sovversione, non è rivoluzione, è sempre la stessa medesima storia a cui assistiamo dalla notte dei tempi. 

 Non è altro che sopraffazione allo stato puro e non fa di noi che antichissimi e rivistissimi reazionari.

 Ci vuole coraggio ad essere sovversivi, ci vuole bontà, ci vuole civiltà, ci vuole disinteresse per il potere, per il denaro, per il dominio.

martedì 27 settembre 2016

Quando parli del dolore impara a raccontare il silenzio. "Il suono del mondo a memoria" di Giacomo Bevilacqua, un treno a vapore così vicino eppure così lontano.

"Io la sera mi addormento  
E qualche volta sogno 
Perché voglio sognare 
E nel sogno stringo i pugni
Tengo fermo il respiro
E sto ad ascoltare
E mi sogno i sognatori che aspettano la primavera
 
O qualche altra primavera da aspettare ancora 
Tra un bicchiere di miele e un caffè come si deve
Questo inverno passera'
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
E se il mio amore di ieri non sa più il mio nome
Come i treni a vapore
Come i treni a vapore
Di stazione in stazione
E di porta in porta
E di pioggia in pioggia
E di dolore in dolore
Il dolore passerà "

 Se si potesse fare una recensione usando una canzone, per "Il suono del mondo a memoria" di Giacomo Bevilacqua si potrebbe usare "I treni a vapore", la bellissima canzone di Fossati. 

Fossati diciamo che visivamente lo preferisco da old
 Purtroppo non si può, non per regole da seguire, ma perché il libro si avvicina alla canzone, ma non se la merita.
 Giacomo Bevilacqua è l'autore di un fumetto che, nonostante il successo, lo dico apertamente trovo noioso e rivisto "A Panda Piace" (lapidatemi pure, ma non mi piace), perciò, lo ammetto, non mi aspettavo molto dalla sua graphic novel  e invece mi ha stupito.

 La storia è quella di Sam, un giovane  giornalista (o una delle sue varie declinazioni odierne) coool che assieme ad un suo amico è riuscito lì dove migliaia di hipster falliscono: ha fondato una sorta di magazine indie di successo sia online sia cartaceo. 

 Da buon imitatore di Vice, decide di lanciarsi in un esperimento sociale: rimarrà muto per tre mesi e non potrà comunicare con nessuno se non per iscritto sul pc col suo amico hipster.

Tutto questo deve avvenire necessariamente a New York, la città dove succedono le cose.

 A quel punto la storia ha un grazioso risvolto con un che di sovrannaturale. 
 Sam, infatti, scatta moltissime foto e, una volta sviluppate, si accorge che in moltissime appare sempre la stessa ragazza che, casualmente, continua a incrociare sul suo cammino.

 Di colpo, nel torpore che sembra affliggerlo, non capiamo bene perché, qualcosa desta il suo interesse e lo riporta brevemente a galla.

 Sam infatti non ha scelto casualmente di imitare Vice, c'è qualcosa di più profondo nel suo mutismo estremo ed è un dolore profondissimo a cui si sa dare un nome solo verso la fine quando si svelerà anche l'arcano della ragazza misteriosa. E' un fantasma? Una stalker? Un caso? Un parto della sua mente? Chi leggerà vedrà.

SPOILER
 Io direi in un modo un po' banale con l'immaginetta della lapide, ma vabbeh.
FINE SPOILER

 Dunque, ci sono molte cose che funzionano in questa storia e sono quelle che la rendono simile alla canzone di Fossati.
 In primis è una storia lenta che si concentra su temi spesso dimenticati o affrontati con estrema superficialità: il dolore e il tempo del dolore.

 Avevo parlato delle difficoltà della narrativa italiana contemporanea di parlare di uno dei TEMI della letteratura di ogni tempo ossia il dolore, nel post dedicato a Maurizio De Giovanni, uno dei rari scrittori che vi insiste ferocemente col suo dolente commissario Ricciardi.

 Molti sono i motivi per cui si evita: la difficoltà nell'affrontarlo, la paura, il pudore, la stupidità, lo spirito dei tempi che ci spinge a ignorarlo o a ridimensionarlo o a renderlo un fatto puramente privato che non deve essere mostrato, in nessuna forma, neanche artistica.
 Eppure è uno  DEI temi.
 Il dolore esiste e ha un suo tempo, un tempo che risucchia ogni cosa, ogni avvenimento, ogni colore, ogni suono. 

 Ed è questo il lato migliore della graphic novel di Bevilacqua: riesce a catturare il tempo del dolore. 

 Quello starsene storditi per ore velocissime a fissare l'unico oggetto, a vedere l'unico film, contemplare l'unico quadro, leggere l'unico libro che riesce a comunicarci qualcosa, anche se non sappiamo perché, e ci consola ed è l'unica cosa nell'universo con cui sentiamo di poter avere ancora un legame, nel nostro dolore infinito.
 Quel ritmo a cui non riusciamo a stare più dietro, il mondo caotico e rumoroso che di colpo ci ha espulso, lasciandoci ai margini ad attendere di risalire. 

 Ma risaliremo mai, se il nostro unico desiderio è abitare un luogo che non esiste, silenzioso, dove nessuno può parlare, nessuno può raggiungerci, nessuno può disturbarci? 
Quella è la grande incognita che rischia di imprigionarci per sempre, come un incantesimo malvagio.

 I tre mesi del silenzio di Sam non è solo il tempo, è anche il posto del dolore. 

 Un luogo che non esiste, dove non abbiamo legami o doveri e la nostra voce è l'unica cosa che riusciamo a sentire, è il posto in cui speriamo di non essere ritrovati, perché abbandonare il proprio dolore è difficile, è un tradimento verso il passato, è un futuro che non ce la sentiamo di affrontare.

 E proprio per la felice intuizione, a mio parere, Bevilacqua avrebbe dovuto fare come Fossati: essere il più essenziale possibile, il più preciso, il più tagliente e silenzioso possibile.

 Ci sono troppe parole, inutili, per un libro dedicato ad un dolore silenzioso eppure assordante.

 Innanzitutto c'è una sorta di inutile voce fuoricampo che parla in terza persona (Perché?? Essendo la storia così personale, intesa come "interna alla persona"?), un vezzo e un problema anche di tanti bei film italiani (primo esempio che mi viene in mente il bel "Dopo mezzanotte" rovinato in parte dal fuoricampo inutile di Silvio Orlando).
 Regola risaputa dello scrivere è domandarsi in continuazione: ma questo serve? Questa frase è necessaria? Posso sfrondare? 
 Certe volte la sostanza è più in quello che non si dice che in quello che ripetiamo per essere certi di essere capiti. Si capisce che una graphic novel sul silenzio e il dolore che può abitarlo perde un po' nell'eccesso di parole.

 Succede persino nel finale, nell'inutile berciare dell'amico dall'altra parte dell'oceano che uccide un momento di rara poesia, come se fossimo alla fine di un film Hollywoodiano.

 E qui veniamo al secondo problema della graphic novel: qualcuno dica ai giovani scrittori, graphic-novelatori, amanti dell'America, del sogno americano, di New York e della letteratura americana che NON è necessario ambientare in America (o inscenare improbabili legami come nel pessimo "Come quando eravamo piccoli") le proprie storie per essere presi sul serio.

 Anche perché la maggior parte delle volte New York e co. finiscono per assumere il ruolo di Parigi e Notting Hill nella letteratura rosa: non un posto reale, ma un posto ideale.

Intendiamoci, tavole bellissime
 Non dubito che Bevilacqua magari ci abbia passato del tempo o anche vissuto, ma qui ritorniamo al punto di prima: era necessario che la città fosse proprio New York? Aveva un legame pesante con la storia? La trama sarebbe stata radicalmente diversa se lo sfondo fosse stato Londra o Roma o Parigi o Toronto? 

 No.

 Poteva essere qualsiasi grande città occidentale perché era l'idea di sentirsi persi in un mondo orrendamente affollato, di essere soli anche se circondati da migliaia di persone che contava.
 New York rende la trama meno vera, gli appiccica qualcosa di posticcio che non merita e raschia via un bel po' di poesia.
 Bastava poco per avere una storia simile alla canzone di Fossati, a raccontare qualcosa di autentico, di condiviso, di essenzialmente vero.
 La via imboccata mi sembra buona, sicuramente più di A Panda Piace.

lunedì 19 settembre 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Der Librariann".

  Ed eccomi, in occasione degli 8000 like su fb torno a dare segni di vita con una vignetta.
 In realtà in settimana vorrei anche riuscire a scrivere la recensione di "Emma la rossa" la biografia su Emma Goldman ed. Eleuthera appena uscita. 
 Nel frattanto, molto a rilento, sto leggendo "L'una e l'altra" di Ali Smith (che miracolosamente è comprensibile, il precedente avevo dovuto abbandonarlo per disperazione) e la biografia di Roald Dahl. 
 Dopo questo bollettino di sopravvivenza, ecco a voi una vignetta realmente avvenuta proprio ieri (un'allucinante domenica in cui molta gente ci ha tenuto a dimostrare di non aver gradito la fine delle ferie).
 100 punti al grinfondoro che coglie la citazione nel titolo.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Der Librariann"!


martedì 13 settembre 2016

Il teorema Sabrina Salerno applicato a "Yeruldelgger". Il tempo perdonerà la versione cartacea di un film di Jean-Claude Van Damme nel ruolo di un ispettore mongolo? Io e Yoda non crediamo.

 Ogni tanto la notte guardo dei nei programmi che fanno sulla rai.
 Immotivatamente sono più belli i programmi e i film di seconda serata e spesso si trovano degli interessantissimi excursus storici musicali. Poiché io sono una capra ammaestrata in fatto di musica, tento di riempire lacune con queste subdole modalità.

Uno di questi programmi, mi svelò, un paio di anni fa che l'artista italiano arrivato più in alto nella hit parade inglese nella storia fu Sabrina Salerno che, cinta in un bikini bianco da cui i seni sgusciavano con furore, cantava "Boys boys boys" saltellando bagnata sul bordo di una piscina.

 Finalmente avevo dato un ruolo a quella donna a me ignota che ogni tanto saltava fuori dalle riviste di mia nonna piene di starlette pronte al matrimonio o piene di figli e giuoia familiare dopo una gioventù di successi tv di vario genere.

 Molti ora inorridiranno al pensiero che io potessi ignorare Sabrina Salerno (magari faceva pena, ma insomma, era ovunque all'epoca), ma è così: il successo passa, le generazioni pure e se prima sapevano il tuo nome pure i sassi, poco dopo sei solo un'ignota che ha spupato con successo a quarant'anni.

 Il teorema Sabrina Salerno si può applicare a quasi tutti i grandi successi di pubblico della narrativa contemporanea.

 Ricordate il furore egizio per Christian Jacq? Ricordate il misticismo de "La profezia di Celestino"? Ricordate quando non si poteva non aver letto "Il codice da Vinci"?

 E ricordate "Uomini che odiano le donne"?

 Certo, quello ce lo ricordiamo ancora, anche perché è uscito un quarto libro di recente, ma pochi anni fa non c'era persona che non sapesse chi fosse Lisbeth Salander, ventenne hacker svedese, in grado di compiere immani prodezze dall'alto del suo metro e cinquanta.

 Quello che colpiva nel personaggio di Lisbeth, fondamentalmente irrealistico, una sorta di Harry Potter sanguinario per adulti (lei, orfana, in balia di un tutore legale psicopatico, con una triste storia nel passato che la perseguita e in grado di compiere gesta eroiche che manco se fosse un'agente del KGB e della Cia fusi insieme) era il messaggio di fondo: la vittima che si fa carnefice.

 Lisbeth Salander non era solo il bene che trionfava sul male, era la vittima che si ribellava dalle sue storiche catene che la volevano in grado di vincere con la giustizia, la verità, buoni alleati e molta fortuna e diventava carnefice.
 Per capirsi, quando il tutore psicopatico la violenta non se ne sta lì a rimuginare e a provare vergogna, gli tende invece una trappola, lo lega e gli tatua sulla pancia un enorme: "Io sono un porco un sadico uno stupratore".
Tiè.

 Non sto dicendo che sia giusto o che sia sbagliato, ma che la potenza di Lisbeth era lì ed era quella che faceva l'enorme differenza tra lei e migliaia di personaggi di libri d'azione tutti uguali.
 C'è un giallo ambientato in Mongolia scritto da un autore francese globetrotter e che, dopo aver spopolato oltralpe è stato portato con successo anche da noi.
 Trattasi di "Yeruldelgger" di Ian Manook.
 Salutato e presentato come un nuovo imperdibile caso editoriale, ha attirato la mia attenzione in quanto giallo ambientato in un luogo insolito: la per me sconosciutissima Mongolia. poiché in genere i gialli in altre nazioni permettono di conoscere luoghi e usanze a me ignote, (e amando molto Qiu Xiaolong, che è cinese, lo so), ero molto ben disposta.

 Ebbene, mettiamola così, la recensione potrebbe ridursi in un "Come un film di Jean-Claude Van Damme, ma ambientato in Mongolia".

 Yeruldelgger è un ispettore di polizia, alto, robusto, belloccio e considerato, un tempo, tra i migliori della Mongolia.
 In procinto di sgominare una di quelle organizzazioni criminali stile Piovra interne allo stato mongolo, si vide rapire la figlia piccola, Kushi, che venne anche uccisa, gettandolo nella disperazione e dando il via a una catena di eventi uno più disgraziato dell'altro.

 Innanzitutto Yeruldegger divenne l'ombra di sé stesso, violento, irritabile, ribelle verso ogni ordine gerarchico e tuttavia adorato da una serie di sottoposti tra cui Oyun, un'ispettrice giovanissima e sprezzante di ogni pericolo (anche troppo).

 In secundis: la moglie impazzisce e la figlia maggiore Saraa inizia a drogarsi che se la fa con un gruppo di nazisti mongoli che mixano ideologia hitleriana a nazionalismo mongolo con spruzzate di filosofie orientali. Il loro odio è convogliato principalmente verso coreani e cinesi, rei di saccheggiare il paese con le loro potentissime aziende.

 La storia inizia quando tre geologi cinesi e tre prostitute mongole vengono trovati massacrati e mutilati all'interno di una fabbrica, tutto porta a pensare che c'entri il gruppuscolo nazista, ma Saraa fornisce loro un alibi prima di essere quasi cotta nelle orribili fogne di Ulan Bator, dove scorrono enormi tubi sovietici arroventati. Lo stesso giorno, guarda il caso, nel bel mezzo della steppa, un gruppo di nomadi, rinviene il cadavere di una bambina col suo triciclo.


 Il libro diventa un susseguirsi di scene d'azione, il più delle volte assolutamente senza senso o incredibili (nel senso di non credibili): Oyun che fa la pensata geniale di andare a indagare da sola, disarmata, nel bel mezzo di un gruppo di 40 nazisti tutti maschi e ubriachi, nella steppa profonda e isolata (vi lascio immaginare come finisce); Yeruldelgger che per ritrovare la pace va in un monastero in stile Kung Fu Panda dove dei monaci che lo hanno cresciuto gli insegnano a ritrovare la pace interiore parlando come Yoda.

 Il tutto mentre personaggi secondari diventano perfidissimi protagonisti e il cattivo, come nei migliori film d'azione, è nientepopodimeno che il suocero!

 Uomo mandato in un gulag durante il regime sovietico, sopravvissuto a torture, cannibalismo, fughe, ferite e diventato miliardario potentissimo che invita miliardari coreani a fare corse in quad dentro i parchi nazionale.
 Ebbene, egli, perfido e malvagio, non ha pietà per nessuno e ha un solo obiettivo: distruggere Yeruldelgger. Solo che, inspiegabilmente non lo fa (e Yeruldelgger gli restituisce il favore evitando di ammazzarlo per lasciarlo a tre cinesi altri un metro e mezzo che muoiono in 20 secondi netti).

Anche Steven Seagal è un'alternativa
 La storia dura la bellezza di 500 pagine e la famigerata ambientazione mongola spunta qui e lì vagamente, quando parla della ritirata sovietica improvvisa all'inizio degli anni '90, dei russi che hanno distrutto il sistema di famiglie nomadi all'interno della steppa, portando molti di loro, in preda a una totale perdita d'identità a vivere nelle fogne.
  L'occidente è lontano, ma una volta tanto i cattivi non siamo noi, ma gli immediati vicini: coreani, russi e cinesi sopra a tutti.

 In quanto a verosimiglianza siamo insomma dalle parti del secondo e terzo libro di Larsson, eppure del libro di Larsson non ha la forza.
Il motivo è presto detto: se nel primo caso il messaggio della vittima che diventa carnefice in un certo senso sostiene la follia della trama, in questo non c'è niente che renda valida la lettura a oltranza di un libro esponenzialmente assurdo.
 Intendiamoci, a me non piace il genere del giallo d'azione molto sanguinolento e con scene cruente, ma il problema non è neanche quello, il problema è che è tutto incredibilmente gratuito o posticcio (le scene del tempio sono degne di Karate Kid).

 Manca quello che fa appunto la differenza tra un action movie ben fatto e un film di Jean-Claude Van Damme.

 L'unica cosa che non mi è spiaciuta è l'atteggiamento che Yeruldelgger ha nei confronti della gente che incontra. In un mondo che sembra aver perso ogni dignità e ogni morale, non se ne capacità.
 Si chiede: davvero non c'è possibilità di redenzione?
 Davvero non c'è nulla che si possa fare per non vivere come topi nelle fogne, per tornare ad essere un popolo fiero che cavalcava nella steppa?
  E a che serve vivere se non si è in grado neanche di proteggere i propri figli? 
 Se si preferisce venderli ai potenti che vogliono divertirsi nel fine settimana come fossero merce? Cosa, esattamente, si teme se il peggio è già avvenuto?

 A quale punto da vittime si diventa complici?

 Quello avrebbe potuto essere il punto di forza di Yeruldelgger, un giustiziere che non compatisce la propria gente connivente di un potere di cui si sente vittima e che in realtà contribuisce a sostenere.
 Peccato che Manook abbia puntato sul drammone familiare in duecento atti.
Il teorema Sabrina Salerno lo punirà.

domenica 11 settembre 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Il Moige".

 Ebbene, ho passato toda la domenica a disegnar, ma non potevo non postare almeno una vignetta del fine settimana (ma sigh lo ripeto, aggiornerò poco, anche se fremo dalla voglia di scrivere la recensione di "Yeruldegger", anche se potrei ridurla in "Un film di Jean-Claude Van Damme, ma in Mongolia").
 Potrei scrivere molte cose su alcuni genitori che vengono in libreria, diciamo che alcuni peccano di un iperprotezionismo che sei i miei avessero applicato a me, avrei finito per scappare di casa il giorno dopo il mio diciottesimo compleanno per fare un giro intorno al mondo scolando vodka e seducendo donzelle.

 Non so se sia parte del delirio del nostro tempo, ma se ben ricordo da "Ricomincio da tre" i Robertini sono sempre esistiti.
 In ogni caso ecco a voi un esempio in vignetta.


 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Il Moige"!






giovedì 8 settembre 2016

Annunciazione!!Annunciazione!! A Novembre esce il libro di vignette e fumetti tratti dal blog per la 001 edizioni!! A voi un fumetto per spiegare come si è arrivati a tutto ciò, "Come fu che iniziai a fare fumetti"!

Ed eccolo, l'annuncio del grande evento che avverrà in Novembre.

 Squillino le trombe, cantino i cherubini, si intonino cori angelici: USCIRA' UN LIBRO DI VIGNETTE E FUMETTI TRATTE DAL BLOG.

 La splendente casa editrice è la 001 edizioni e anche mentre ve lo scrivo sono in una sorta di felice agitazione per vari motivi.

 Il primo è che ovviamente cesserà lo pseudo-anonimato con cui ho sempre tenuto il blog, ergo saprete il mio vero nome (ma non dirò dove lavoro ovviamente). 

Avevo scelto all'inizio uno pseudonimo per tanti motivi, ma in effetti dopo tre anni aveva anche senso dare una svolta in questo senso.

 Il blog è nato come necessità di riprendere la mano con la scrittura e desiderio di mettermi alla prova in un periodo un po' solitario della mia vita e poi è diventato molto altro, grazie alle ore che ci ho impiegato nel curarlo e grazie a voi che lo seguite (scusate le frasi da youtuber quindicenne) e che, devo dire, nel grande marasma di internet, siete sempre stati su tutti i social i lettori più stimolanti e meno polemici (ho dovuto domare tre flame in totale) della terra.
 Devo ammettere che io ho sempre scritto, sono il tragico esempio di libraia che aspira a diventare scrittrice, quindi non avrei mai immaginato che un giorno avrei combinato qualcosa coi miei fumetti. 

 Disegnavo bene tanti anni fa, ma poi ho smesso per tanto di quel tempo che la mano si è quasi totalmente persa. Tuttavia, mentre lavoravo a questo fumetto per annunciarvi l'uscita del blog, ho forse capito che in realtà è stato meglio che, per ora, sia andata così. 
 Certe volte, (lo so, è una banalità degna di un libro motivazionale), ci si rimette sulla giusta strada passando per inimmaginabili vie secondarie che poi secondarie non sono per niente, semplicemente non le avevamo mai colpevolmente prese davvero in considerazione.

 Vabbeh, dopo questo drammatico sproloquio ecco a voi il fumetto in cui si narrerà la mia genesi di pseudofumettara.
 Non appena saprò la data esatta di uscita inizierò a tappezzare la pagina di annunci e, a fine ottobre, appena riesco a tornare alla casa madre, tenterò persino di girare uno spot con l'aiuto della sorella di mezzo e del tenero fidanzato.
 Intanto grazie a tutti e tutte!!
 "Come fu che iniziai a fare fumetti" o anche "A novembre esce il libro del blog!"













mercoledì 7 settembre 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Nobili scopi"!

Finalmente domani dovrebbe vedere la luce il fumetto che svelerà alle masse il fantasegreto che vado millantando (male) su fb da due settimane. 
 Oggi mi sono impegnata, ma alla fine sono sempre venute fuori quelle otto pagine da ripassare, scansionare e via dicendo.
 Per mettere una toppa alla giornata, ecco a voi la vignetta del giorno.
 Quando sui giornali ci si stupisce di certe notizie sull'incredibile credulità popolare, mi stupisco sempre di chi si stupisce. Vi basterebbe un giro in libreria per vedere a cosa è disposta a credere la gente, anche nell'epoca dell'alfabetizzazione, sembra che non siamo riusciti in nessun modo ad affrancarci dai ciarlatani medievali.
Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Nobili scopi"!



lunedì 5 settembre 2016

La vicina perbene, l'insetto schifoso, il vicino trasandato e lo spirito del tempo. "Io sono vivo e voi siete morti", biografia di Philip Dick by Carrère, quando la follia forse è solo (o anche) incapacità di adattamento ad un mondo crudele che non ci appartiene.

 Uno dei pochi film di Woody Allen che mi è davvero piaciuto (e suppongo che questa cosa mi renda una pessima cinefila) è "Midnight in Paris".

 L'idea di base, quella di un uomo insoddisfatto della propria epoca, che viene catapultato per caso nel suo periodo storico preferito, (in questo caso la Parigi-festa mobile degli anni '20-'30) è tanto semplice quanto potente: quanti di noi vorrebbero vivere in un altro tempo, che consideriamo più consono alle nostre inclinazioni, al nostro carattere o alle nostre aspirazioni?

 Certo, il film poi ci spiega pazientemente che si tratta di una sorta di sindrome da "epoca d'oro": il passato che immaginiamo è sempre assai diverso da quello che è stato poi realmente e, soprattutto, sarà sempre in vantaggio sul presente. Tutto quello che abbiamo e viviamo rischia sempre lo svantaggio verso l'immaginato, il ricordato, lo sperato, perché i sogni raramente sono crudeli, la realtà lo è quasi sempre.

 Tuttavia, nonostante questa spiegazione sia perfettamente giusta, logica e coerente, penso sia altrettanto incontrovertibile che non tutti siano nati per vivere nella propria epoca

Lo penso dai tempi in cui ho appreso che il povero Keplero che adesso sarebbe al Cern a studiare i bosoni, all'epoca veniva considerato solo in funzione della sua capacità di fare ottimi oroscopi.

 Guardate (o leggete) il meraviglioso spettacolo di Paolini, "Itis Galileo" e scoprirete (se non lo sapete già), come prima della nostra epoca positivista e tecnofila, essere uno scienziato un tecnico non portava a carriera, borse di studio e implorazioni da parte del governo per popolare le facoltà scientifiche, ma ad essere considerati studiosi di serie B. 

 Era l'epoca degli umanisti (che comunque dovevano girare per Cangrandi e Mecenati vari per trovare qualcuno che li mantenesse mentre, pacifici, creavano).
 In parte è la fortuna di trovarsi al posto giusto al momento giusto, in parte però credo che la sindrome da epoca d'oro derivi da quel concetto inafferrabile che è lo zeitgeist, lo spirito del tempo.

 Coloro che hanno la ventura di corrispondere e cavalcare lo spirito del tempo vivono un privilegio enorme che è negato ad altri ed in genere rimpiangeranno per tutta la vita.
  Perché lo spirito del tempo, basta vedere i filmati di Techetè sulla Rai la sera, non perdura per molti anni.

 Un giorno del 1972 Ivano Fossati canta Jesahel vestito da Gesù Fricchettone e circondato da hippie, pochi anni dopo te lo ritrovi con le tastiere elettriche e una giacca discutibile in pieno stile anni '80. 

 La moda è cambiata, ma in realtà è l'atmosfera ad esserlo, quello che prima era normale, diventa ridicolo, quello che prima era impensabile, ora è indispensabile, è lo spirito capriccioso del tempo.

 Questa riflessione è quella che più mi è saltata agli occhi leggendo la biografia di Philip Dick scritta da Carrère, il quale non ha operato un'impostazione biografica tradizionale, ma ha piuttosto seguito un sistema generalmente riservato alle autrici donne.

Ha infatti analizzato la vita di Dick attraverso le sue numerose e turbolente relazioni sentimentali.
 Incapace di star solo, (e nei rari attimi in cui gli è capitato, totalmente allo sbando), Dick aveva la stessa tendenza di Paul McCartney: sposava tutte le donne con cui si fidanzava.

 Da qui un primo matrimonio di una settimana e uno immediatamente successivo con l'unica moglie che Carrère giudica equilibrata e presente a sé stessa: l'attivista politica di origine greca, Kleo.
 Dopo Kleo venne la devastante Anne, che condusse Dick a una tale tensione psichica da portarlo a scrivere "La svastica sul sole", ma che con le sue aspirazioni da vedova borghese minò abbondantemente il suo già minato equilibrio psichico. Si fecero molto vicendevole male (Dick riuscì persino a farla rinchiudere in una casa di cura per un periodo) prima di separarsi.


Dopo Anne venne una diciottenne con problemi di anoressia, completamente dipendente da Dick, e dopo di lei, un'altra giovanissima.

 Anche costei lo lasciò, precisamente dopo che Dick cadde vittima di un episodio psicotico devastante della durata di tre mesi in cui ebbe l'impressione di ricordare una vita precedente dove era un cristiano perseguitato dell'antica Roma (e da cui scaturì quella contortissima e infinita opera che è l'Esegesi). Dopo ci furono un'aspirante suora alle prese con un morboso rapporto con la propria malattia e un'energica insegnante di yoga. Infine la morte.

 Il giudizio generale di Carrère su Dick è quello di un uomo incredibilmente fragile, sentimentalmente dipendente (dalle donne sbagliate) e salvo dalle sue psicosi grazie alla letteratura o meglio, alla particolare forma di letteratura, la fantascienza, che gli permetteva di convogliare i mondi possibili e inquietanti che altrimenti lo avrebbero condotto alla pazzia.

 Tutto giusto, ma, da come la mette Carrère, e anche dalle brevi memorie lasciate di suo pugno da Dick stesso, l'idea che si potrebbe trarre è anche quella di una forma di psicosi nei confronti della società, di un tempo e un mondo nel quale una persona come lui non poteva trovarsi a suo agio.

 Dick aveva infiniti problemi e numerosi psicologi e psichiatri hanno tentato di formulare ipotesi sui disturbi dei quali poteva soffrire. Quali che fossero gli consentirono di vivere, nonostante tutto, fino ai cinquant'anni, di intessere relazioni amorose e d'amicizia, di avere tre figli, vincere premi, scrivere libri anche a ritmo sostenuto.
 
Il tutto, nonostante l'uso di stimolanti e droghe (malgrado Carrère asserisca che Dick, al contrario ad esempio di Huxley, abbia fatto uso di LSD solo una volta e anche male).
   Era perciò una persona in grado di sopravvivere all'interno della società e di condurre una vita socialmente integrata, però, c'è un episodio rivelatore sul modo in cui considerava la sua presenza nella società.

 Chiamato dalla vicina di casa perbene per ucciderle un orribile insetto che le era piombato in casa, una volta compiuta la missione, era stato apostrofato dalla donna con un "Se avessi saputo che era innocuo, lo avrei ucciso io"

 Era questo il suo rapporto con la società borghese dunque? Un eccentrico tollerato solo in funzione del lavoro sporco (nel suo caso la narrativa di genere, considerata di serie B)? E sminuito dopo che era stato compiuto?
 Leggendo la biografia e i libri di Dick, pieno di  mondi, realtà e tempi che si intersecano tra loro come incubi concentrici, viene il dubbio che Dick, tra le altre cose, soffrisse di una terribile mancanza di adattamento allo spirito del tempo.
 Ebbe la fortuna di cavalcarlo con gioia per una manciata di anni, durante il periodo della controcultura, degli hippie, della contestazione e dell'amore libero. Il momento storico in cui non era un freak, ma una persona interessante, anzi era la persona da conoscere e da frequentare per essere considerati una persona interessante.

 Terminato il momento tornò un ratto alla ricerca di un suo posto nel mondo, tentò di ricreare l'attimo adibendo la sua casa a una sorta di ritrovo di squatter e vagabondi, ma la magia era passata, lo spirito del tempo era cambiato. Non era più sull'onda, era sotto.
 E Dick, a quanto sembra, non era persona da adattarsi, da far buon viso a cattivo gioco, era uno che continuava a sentirsi fuori dal tempo e su un altro pianeta, l'abitante di una dimensione parallela che fatica a comprendere quella in cui, suo malgrado, si trova, intrappolato dal dubbio che tutto sia una grande finzione, che qualcuno lo stia manipolando.

 Sarebbe stato lo stesso se avesse sempre cavalcato lo spirito del tempo?Se non avesse avuto difficoltà di adattamento? Sarebbe poi stato così strano, così sempre in affanno, fuori contesto, alla disperata ricerca di un punto fermo, di una moglie, una compagna, un qualcuno che lo tenesse ancorato al presente?

 La domanda vera è: Dick sarebbe stato considerato una persona schizoide se fosse sempre vissuto in un tempo e in una società a lui consona?

 O è diventato Philip Dick, autore di contorti e controversi romanzi di fantascienza, di mondi a metà tra la vita e la morte, di ucronie al rovescio, di robot che non sanno di esserlo, perché la sua, la nostra, realtà gli appariva talmente estranea da non poter essere considerata, ai suoi occhi, davvero reale?

 Bradbury, Asimov, Sheckley, sono stati tutti grandi autori di fantascienza che hanno inventato mondi possibili e probabili, e la loro grandezza è stata nella capacità di prevedere il futuro o di piegare il presente alle regole della fantascienza facendone una critica politica sociale.
 Dick sembra essere altro, completamente altro. Sembra non voler prevedere mondi possibili, ma descrivere il mondo come appariva ai suoi occhi: folle, doppio, inverosimile, crudele.

 Un mondo di soprusi in cui il vincitore decide chi è vivo e chi è morto, chi è la vicina perbene, chi l'insetto schifoso e chi il vicino trasandato da usare per schiacciarlo.

domenica 4 settembre 2016

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Il Decamelone"!

Ed ecco a voi dopo una sparizione di ben tre giorni, la vignetta del giorno.

 Mi scuso, ma sto facendo un po' fatica a rientrare nei ritmi di vita normali(casa-lavoro-blog-vita-blog-lavoro-casa) e inoltre tra pochi giorni vi sarà un big annuncio di una big sorpresa molto big.

 La qual sorpresa farà sì che almeno per settembre il blog verrà aggiornato meno del solito (ma giuro è un buon motivo, sto cercando di seminare suspense meglio che posso, ma non è il mio forte, spero vi sentiate sulla corda comunque).

 In ogni caso oggi ecco a voi un post che forse potrà rispondere a una delle fatidiche osservazioni che spesso mi si fanno: "Eh, ma io sono andato in libreria e il libraio mi ha chiesto chi era l'autore del famosissimo libro X o non conosceva il famosissimo libro Y".

 Come ripeto spesso, l'onniscenza non è di questo mondo (non potete capire che figure faccio io quando mi chiedono libri di musica ad esempio), ma non bastasse questo, spesso ci si mette l'editoria a confonderci le idee. 
Perciò domande che a voi sembrano stupide e ripetitive, servono in realtà a noi per capire di aver capito bene.

 Non potete neanche lontanamente intuire quali assurdità si annidino nel sottobosco editoriale.
 Un esempio nella vignetta del giorno (in cui sono in compagnia del collega veneto).

 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Il Decamelone"!



Ps. Scusatemi per la scansione, presto l'amico scanner verrà sostituito.
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