giovedì 30 marzo 2017

Avviso ai naviganti per tre nuovi incontri! Evento last minute il 31 Marzo a Brescia a Giappone nel chiostro e le due date in Umbria!

Giurandovi che entro stasera riuscirò a produrre una vignetta, debbo tuttavia tediarvi con un nuovo evento che definire last minute è riduttivo: il 31 MARZO sarò alla rassegna Il Giappone nel chiostro a Brescia.

 Farò ben due incontri: il primo alle 16:30 e il secondo alle 18:00. 
 Ci saremo io, i disegnetti, il mio libro e il mio amore per il Giappone condiviso con una generazione di trentenni cresciuti a pane, anime e manga.



 Di seguito potete trovare anche la pregiatissima locandina dei miei due incontri in Umbria: il 3 a Terni, il 4 a Perugia!
Scusate il tedio!


martedì 28 marzo 2017

Presentazione il 30 Marzo, ore 19:00 alla fumetteria WoT - Waste of Time! MILANO!

Tanto per cambiare questi giorni sono in giro!

 Il 30 sarò alla fumetteria WoT - Waste of time, a Milano, ore 19 (Via Adige, 7, zona Porta Romana), mentre preannuncio che il 3 sarò a Terni, il 4 a Perugia e il 6 a Roma (presto locandina al riguardo, se vi perdete e siete interessati, c'è sempre il calendario di Google in basso a destra nel blog!).

 Intanto eccovi la locandina di Wot!


lunedì 27 marzo 2017

Piccole recensioni tra amici! Due novità e un long seller: Murakami e l'arte di scrivere, il falso incantesimo dell'adolescenza di Lucia Biagi e le sugnerie di Jiro Taniguchi.

 In queste ultime settimane ho letto, in modo molto disordinato, un po' ovunque, come potevo.

 Finalmente sono riuscita a buttare già un primo "Piccole recensioni tra amici" in cui potrete trovare ben due novità e una graphic novel (in realtà due) che magari già straconoscete perché molto famosa e ormai vecchiotta (ma visto che molti non leggono graphic, magari sarà utile a qualcuno).
 Comunque, preannuncio, sono tutti e tre dei sì.

 Let's go!

IL MESTIERE DI SCRITTORE di Haruki Murakami ed. Einaudi:

 Trovo sempre affascinanti i libri in cui gli scrittori raccontano come lavorano, cosa li ha spinti a diventare autori, quali difficoltà hanno incontrato e, soprattutto, da cosa nascono le loro opere.

 Non so se si tratta di una deformazione da liceo (quando devi studiare per filo e per segno la vita di un autore e cosa l'ha ispirato nella scrittura di una certa opera o nella creazione addirittura di uno stile), ma è una curiosità che mi fa apprezzare di più lo scrittore e che, da lettrice, mi piace in particolar modo soddisfare.

 E temo sia la stessa ragione per cui quando mi si dice che "La vita di un autore non dovrebbe interessarci perché è indipendente dalla sua opera" mi viene un moto di irritazione.
 Non esiste opera senza autore, un'opera, di valore in particolar modo, non nasce dal niente, ha molte sfaccettature e, se vuoi davvero vederle tutte, è anche lo scrittore che devi guardare in faccia.

 Murakami è sempre stato abbastanza misterioso sulla sua vita (o almeno qui in Italia non è che si sappia granché).

  A spizzichi e bocconi si poteva dedurre che aveva iniziato a scrivere relativamente tardi, che aveva partecipato ai moti studenteschi degli anni '70 e che prima di scrivere aveva un jazz bar (che poi è lo stesso mestiere del protagonista di "A nord del confine ad ovest del sole"). Come curiosità italica potevamo apprezzare che avesse scritto gran parte di Norwegian Wood in un appartamento a Roma, ma per il resto c'era poco da scialare.

 Vedere perciò in libreria "Il mestiere dello scrittore" è stato fantastico.
 Il libro, purtroppo non lunghissimo, è per alcuni versi simile a "On writing" di Stephen King, un altro autore piuttosto misterioso a livello autobiografico.
 Racconta infatti cose interessanti come il metodo di lavoro, di revisione, di scelta dei personaggi dei suoi romanzi, ma anche alcune indispensabili notizie autobiografiche.

 Un capitolo in particolare mi pare sia esattamente identico all'introduzione di "Vento e flipper" e racconta il modo surreale e direi murakamiano in cui Murakami ha deciso di scrivere.

 Al contrario della stragrande maggioranza degli autori che iniziano bambini (o in seguito a una qualche esperienza di vita particolarmente intensa), all'età di 29 anni se ne stava a una partita di baseball. Vide una palla arrivare nella sua direzione e pensò "Scriverò un romanzo" e, ragazzi, lo scrisse sul serio.

Prese molto seriamente la questione, comprò fogli e penne, scrisse una prima versione che non lo convinceva, poi decise di usare uno strano metodo: scriveva in inglese e traduceva.

 Avendo un vocabolario e una capacità di espressione più limitata che in giapponese (per quanto poi divenne il traduttore di Carver, più volte citato nel libro) trovò in tal modo il suo stile: frasi brevi, concise e molto dense.

 In realtà in generale, escludendo la parte tecnica della stesura dei romanzi, simile a molti scrittori, con una regolarità maniacale (anche se al contrario di King che scrive tutti i giorni, Murakami ammette di scrivere solo quando ha una buona idea) e più revisioni, il libro mostra tutta la differenza che può intercorrere tra un autore orientale e uno occidentale.

 Murakami racconta con modestia e molto stupore del suo successo: primo libro scritto nella vita, subito premiato e accolto bene dal pubblico.

  Parla di un bambino, figlio unico, vissuto senza particolari difficoltà almeno fino quando a vent'anni, durante un'università funestata dai moti studenteschi, decise di sposarsi (non si sa perché) e di metter su un jazz bar (questo invece si sa perché: voleva un lavoro che non fosse all'interno del soffocante "sistema"). Non aveva molti soldi, s'indebitò fino al collo e lavorò come un pazzo per dieci anni. Quando infine poteva godersi il locale, iniziò a scrivere e vendette l'attività per dedicarsi completamente alla scrittura.

 La leggerezza e al contempo la freddezza con cui Murakami procede spedito nella sua esistenza sono sconcertanti: non sai se la sua vita sia il frutto di una fervente determinazione o di continue botte di fortuna (lui propende per una fusione delle due).

 Se siete appassionati di Murakami è imperdibile, se siete aspiranti scrittori anche, perché presenta il mestiere dello scrittore in modo diverso da tutte le autobiografie lavorative mai lette: c'è la parte del duro lavoro, ma anche un fortissimo desiderio di rivoluzione e opposizione all'ordine costituito che stupisce.
  Forse in generale la rivoluzione è il messaggio dell'intero libro: procedere per la propria strada, avere qualcosa di preciso da dire, farlo in modo originale, avere il coraggio di rompere gli schemi, ma anche di vivere nello stesso modo.
 E per rivoluzione non si intende spaccare vetrine o drogarsi per raggiungere il Nirvana, ma rifiutarsi, ostinatamente, di cedere alle convenzioni e alle pressioni esterne.
 Siamo gli unici responsabili del nostro destino, che è ben più che esserne artefici.


GOURMET di Jiro Taniguchi e Masayuki Qusumi ed. Planet Manga:

 Le graphic novel sul cibo che funzionano non è che siano molte e in generale il tema del cibo sulla carta stampata non è che renda tantissimo. E' il motivo per cui non riesco a trovare appassionanti i libri di Bourdain o i saggi di cucina in generale.

 Leggere di una cosa che in realtà potresti e dovresti apprezzare solo mangiandola, non solo non è il massimo, ma è proprio frustrante e francamente spessissimo poco efficace a livello visivo.

 I due volumi di Gourmet, scritti da Masayuki Qusumi e disegnati da Jiro Taniguchi, sono una felicissima eccezione che consiglio a tutti, soprattutto a due categorie opposte: gli amanti folli del cibo giapponese e gli odiatori folli del cibo giapponese.

 Ai primi perché è il paradiso, ai secondi perché così potrebbero finalmente comprendere qual è il motivo di tanto fascino del nipponico cibo (oltre ovviamente all'imprinting dei cartoni animati).

 I libri sono composti da capitoletti indipendenti e raccontano le avventure gastronomiche di un avvenente imprenditore di import/export giapponese con la passione per il buon cibo.

 Nei suoi numerosi spostamenti per lavoro sul territorio nazionale (raramente anche all'estero), invece di andare sul sicuro in qualche catena o ristorante rinomato, decide di avventurarsi in sobborghi, trattorie gestite da ex studenti, baracchini di takoyaki, nostalgiche osterie di paese dove ritrovare i sapori della propria infanzia. Sceglie cibo a portar via in stazione con attenzione, frequenta supermercati notturni, si imbarazza ad entrare in pasticcerie perché non sarebbe abbastanza virile (questa fissazione nipponica me l'ero persa) ed è un buongustaio senza tema.


 Grazie a lui si scoprono gli infiniti e incredibili piatti della cucina nipponica, per noi occidentali praticamente pietanze aliene composte da molluschi e pesci mai sentiti, combinazioni assurde, preparazioni complicatissime (si capisce finalmente perché in tutti i manga siano ossessionati dal fatto di trovare una moglie che cucini bene: una casalinga giapponese dà una pista a Cracco).

 La fame devo dire sale a tratti (molte cose non si capisce neanche bene cosa siano, io ancora mi interrogo sulla funzione dei fogli di caseina cruda), ma la vera eccezionalità del libro è l'essere riusciti a trasformarlo in una sorta di breviario di avventure meravigliose.

 Il protagonista è un eroe il cui unico merito è quello di non aver paura di assaggiare cose nuove. Spesso viene premiato, qualche volta vive cocenti delusioni, ardisce composizioni, osserva gli altri avventori, ricorda in stile madeleine proustiana. Leggi decine di pagine in cui si ingozza di cibo a te ignoto eppure non puoi non rimanerne affascinato: gli piacerà? Sarà buona la trattoria? Chiederà il bis?
 Un piccolo capolavoro, stra-stra-consigliato. Sia il primo che il secondo volume!



MISDIRECTION di Lucia Biagi, Eris edizioni:

 Attendevo da quando l'avevo intravistoa nelle nuove uscite, questa graphic novel di Lucia Biagi.
 L'estate si addice agli adolescenti e così ,anche in questo caso, c'è un'estate passata in montagna dai nonni, una ragazzina di tredici anni che è all'inizio del periglioso cammino dell'adolescenza, una migliore amica che vuole subito diventare grande e sembra affascinante e pericolosa al tempo stesso.

 La storia procede con un espediente narrativo interessante che tiene in tensione tutto il tempo: una mattina, Federica si sveglia e al solito inizia a chattare coi suoi amici. Tutto regolare, se non fosse che la sua migliore amica, Noemi non le risponde. 

 Dormirà, si dice, ma le ore passano e di Noemi nessuna traccia. I genitori non sanno dove sia e non sembra importargliene molto e tutte le persone che Federica incontra sembrano fondamentalmente disinteressate a dove e perché possa trovarsi la ragazza.

 Ovviamente il patema cresce non solo in Federica, ma anche in noi, che, andando per flashback intuiamo che tipo di persona sia la famosa Noemi: la classica amica dell'adolescenza, magari un pochino più grande, che ogni adolescente un po' rincoglionito o ancora ancorato all'infanzia ha. Creature affascinanti che già si comportano come gli adulti, a cui da una parte vorremmo somigliare, ma da un'altra temiamo.
 Generalmente sono quelle splendenti creature che vivono solo qualche luminosissima estate da giovani, prima di infrangersi contro le mura della vita a cui, nonostante le apparenze non erano davvero preparate.

  Una quattordicenne rimane tale anche se si atteggia a diciottenne (quanto mi urtano quelli che "A quindici anni è già una donna", come se la maturità dipendesse dalla crescita delle tette) ed è un piccolo inquietante particolare che dimenticano tutti, gli adulti che se ne approfittano, i ragazzi che le attribuiscono capacità e poteri che esistono solo in apparenza, gli amici abbagliati e le quattordicenni (o i quattordicenni, capita anche ai maschi) che si illudono di aver capito tutto della vita.
 Quando l'incanto finisce, rimane ben poco.

 Ed è di questo incantesimo che si spezza che parla Misdirection: la fine dell'illusione, la realtà che irrompe crudele e rende più adulti. 

 Anche perché, va bene tutto, ma non credo che qualcuno ricordi l'adolescenza come un'ininterrotta sequela di meraviglie, anzi, c'è a quell'età una grande dose di tristezza e di delusione, di perdita della fiducia e di distruzione di sicurezza e convinzioni. Diventiamo quello a cui sopravviviamo da quindicenni.
 Consigliato.

giovedì 23 marzo 2017

E se il nostro tempo non ci rispecchiasse più? L'epoca del sospetto e la volontà di sopravvivere ad essa: recensione de "L'invasione degli ultracorpi".

 Negli ultimi anni mi sta avvenendo una cosa curiosa di cui non mi vanto affatto: mi sento un po' sfasata rispetto allo spirito del tempo.

 Dello zeitgeist e delle sue fauste conseguenze se uno lo prende in pieno surfandolo alla grandissima, avevo parlato nel post dedicato a Philip Dick che durante gli anni '70, tra lsd e controcultura, aveva passato i migliori anni della sua vita, sguazzando come un pesce nel suo oceano preferito.
 In qualche modo ho sempre avuto una buona capacità di adattamento e continuo ad avercela (prova provata è il fatto che io tenga un blog nonostante non provi questa spassionata simpatia per un internet privo di regole in cui ognuno si sente libero di dare fondo ai suoi più bassi istinti) perciò non è che da fuori si nota molto questo sfasamento.

 Mi accorgo però di fare molta fatica per quel che riguarda il discorso sulla cosa pubblica, sulla civile convivenza e su tutti quei grandi temi che in questi anni stanno diventando non fonte di dibattito etico, ma di nevrosi collettiva: uno di essi è, per esempio, la libertà di scelta del singolo nei confronti della collettività (per me, ad esempio, il bene conclamato della collettività viene prima).

 Un altro è questa insofferenza generalizzata nei confronti di tutto: tutti sono fonte di odio, invidia sociale, livore e accuse. Io, per dire, non so come si possano trovare ancora persone sane di mente che accettano di candidarsi a qualsiasi carica pubblica sapendo che nel migliore dei casi andranno incontro alle forche caudine e al pubblico ludibrio.

 Nel senso, accusare di corruzione l'universomondo sulla base di una denuncia, non è che fa diminuire la corruzione, fa solo spaventare a morte i non corrotti che, giustamente spaventati dal poter essere accostati a persone di dubbia moralità, si dicono "Sai che c'è? Me ne sto a casa", che non crediate che gli stipendi dei sindaci di paese siano più alti di un mero rimborso spese.

 Questo è per dire che ultimamente mi pare di essere finita in una gabbia di matti isterici. Poiché tento di ragionare, mi dico che magari non sono gli altri una massa indistinta di urlatori, ma io che non mi trovo più in questo tempo.

 Ho sbagliato la tempistica, magari dovevo nascere tra vent'anni o vent'anni prima ancora, non lo so, di certo mi guardo attorno e provo un certo senso di spaesamento. Poi appunto, siccome lo spirito di adattamento ce l'ho, maschero bene.

 Questo preambolo personale di cui capisco potrebbe non fregarvene niente, è per farvi capire il sincero sollievo con cui ho letto un piccolo classico della fantascienza: "L'invasione degli ultracorpi" di Jack Finney.

 Lo trovavo citato, come esempio di allegoria del delirio maccartista, in "Danse Macabre" di Stephen King e mi aveva incuriosito (fino a quel momento lo collegavo solo confusamente a un film horror di serie B mai visto).

 La storia in effetti sembra molto film di serie Z. La trama.
 In una tranquilla cittadina americana, un bel giorno al dottor Miles Bennell, giovane e fresco di divorzio, riceve la visita di una sua ex compagna delle superiori, la giovane e fresca di divorzio Becky.

 Becky asserisce che una sua amica (la bibliotecaria nubile che però, nonostante questi difetti è rimasta una persona quasi normale) è preda di una strana fissazione: è convinta che suo zio non sia più suo zio. Ossia, esteticamente e nel modo di comportarsi è identico a suo zio, ma c'è qualcosa che istintivamente la disturba e le suggerisce che non può proprio essere suo zio.

 Nell'arco di una settimana, questa strana allucinazione colpisce varie persone, costringendo Bennell a spedirle tutti dallo psichiatra cittadino, Manfred Kaufman.

 La faccenda, bollata come allucinazione collettiva, subisce una svolta quando una coppia di amici di Miles, Jack e Theodora, scoprono nel loro scantinato due strani baccelli che progressivamente si trasformano in loro copie perfette.

 I quattro, in un crescendo di orrore, scoprono quindi che è in atto una sorta di subdola invasione aliena: dei baccelli venuti da chissà dove, stanno prendendo il posto dei loro concittadini.
 La copia è così perfetta che distinguerli dagli originali è quasi impossibile, tanto che quando i quattro decidono di scappare e poi di tornare tempo dopo per vedere cosa è successo al loro paese, non lo trovano poi così cambiato.

 La loro città è semplicemente, orrendamente, trascurata. La vita sociale è morta, non si organizza più niente, nessuno si preoccupa più di mantenerla curata e i venditori lamentano un calo delle commissioni spaventoso.
 "Tutto quello che vedevo era rimasto identico ma sembrava diverso; eppure non sapevo con precisione in cosa consistesse la differenza. Se fossi stato un pittore e avessi dipinto la strada come la vedevo in quel momento, avrei fatto le finestre sghembe, le persiane abbassate a metà per farle somigliare a occhi che ci spiassero ostili."
 Il ritorno si rivela però un grande sbaglio.
I quattro assistono alla consegna dei malefici baccelli parassiti ad altri paesi vicini e quando vengono scoperti si danno a una fuga disperata che però finisce male. Le due coppie vengono fatte prigioniere in due luoghi diversi.

 Miles e Becky vengono sorpresi nello studio di lui, dove si erano rifugiati in cerca di riposo, dallo psichiatra cittadino, Manfred Kaufman, incaricato di baccellizzarli.

 La cosa curiosa è che in questo frangente (che contiene anche una scena molto splatter), si verifica un dialogo per certi versi simile a quello de "La luna è tramontata" di Steinbeck.

 Nel libro di Steinbeck (ovviamente molto più bello e di valore) in un paese del nord Europa occupato dai nazisti, per punire degli atti partigiani contro gli occupanti, il sindaco viene condannato a morte come rappresaglia.

 Prima della morte affronta un dialogo contro l'ufficiale nazista che preferirebbe non condannarlo a morte (un po' per non farne un eroe, un po' perché davvero non vorrebbe) e gli chiede di convincere i propri concittadini a smetterla per evitare altri spargimenti di sangue. Il sindaco, un uomo semplice, ma molto retto, ribatte fermamente:

"Vedete signore, nulla potrà mutare la situazione. Voi sarete disfatti e schiacciati. I popoli non amano essere conquistati e per questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combatterla nella sconfitta. Gli uomini-gregge seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre. Vi accorgerete che è così."

 Nello studio di Miles succede un po' la stessa cosa: lo psichiatra baccellizzato tenta di convincere in ogni modo Miles a farsi baccellizzare.
Le motivazioni, sono a suo dire molto valide: il baccello diventa una loro versione priva di emozioni e perciò libere dalla frustrazione e dalla nevrosi, dalla paura e dall'ambizione, da tutto quanto rende la nostra vita una continua fonte di preoccupazione.

 E poi usa l'arma di persuasione favorita: tutti lo fanno, tutti si sono piegati, non dobbiamo avere pregiudizi, dobbiamo essere aperti verso ciò che è nuovo (anche se in questo caso si tratta di una specie aliena parassita).

 "Non vi faremo del male, e quando avrete capito quello che... dobbiamo fare, penso accetterete la cosa, anzi vi domanderete perché abbiate fatto tante storie"

 Rimasto solo Miles si interroga: effettivamente che senso ha combattere?
 Una battaglia peraltro che sembra già perduta in partenza? Basterà infatti che lui e Becky si addormentino perché i baccelli prendano il loro posto e, in effetti, il sonno già si appresta e le palpebre si fanno pesanti..
 Poi però Miles pensa una cosa, una cosa che sembra straordinaria quando tutti gridano e cercano di convincerti che stai sbagliando, che devi cedere, che dopotutto resistere è solo un'inutile fatica.

 "Allora capii (Miles ndr) che c'era qualcosa che potevo fare per lei, invece di accarezzarle i capelli. Potevo convincerla. Potevo accettare ciò che Mannie aveva detto, sforzarmi di crederlo, convincere anche lei. Avrebbe potuto essere la verità, avrebbe potuto esserlo...Mentre accarezzavo la testa di Becky e la tenevo stretta a me, mentre la sentivo tremare, lasciai che il desiderio di credere si rafforzasse. Tuttavia... Budlong aveva ragione: la volontà di sopravvivere non può essere negata e sapevo che dovevamo batterci, dovevamo. Come un uomo condannato a morte cerca inutilmente di trattenere il fiato nella camera a gas, noi dovevamo resistere finché ci fosse stato possibile, dovevamo lottare e sperare anche quando non rimaneva più alcuna speranza."

 Finney scrisse "L'invasione degli ultracorpi" per parlare del delirio maccartista, quella caccia alle streghe che rese chiunque mostrasse caratteristiche vagamente fuori dalla convenzione, un papabile comunista teso a minare le basi della società americana.

 Rese chiunque una papabile spia e chiunque un papabile colpevole, distrusse carriere, pose migliaia e migliaia di americani sotto il rigido controllo dei servizi segreti (Dick riceveva visite a scopo interrogatorio continue) e rilasciò una nevrosi nella popolazione assai simile a quella che ci ha raggiunto in questi anni.

Chiunque in Europa è un colpevole: un papabile terrorista o un papabile ladro di soldi altrui.

 E proprio come nella città baccellizzata i cittadini si ritrovano su due fronti: i baccellizzati, identici a prima, convincenti, persuasivi eppure subdoli e omissivi (lo psichiatra tenta di nascondere fino all'ultimo i lati negativi della baccellizzazione, ossia mancanza di emozione e morte prematura) e gli spaesati resistenti, che non si spiegano perché, tra tutti, proprio loro non si riescano a convincersi.

 Forse, sono solo scivolati fuori dal tempo. Gli altri si sono accomodati sul nuovo spirito del tempo e loro hanno perso il treno, non riescono ad adattarsi, a trasformarsi e istintivamente resistono ai baccelli che li renderebbero come tutti.

 Non sarebbe tanto più semplice pensarla come tutti? Surfare alla grandissima lo spirito del tempo?

 Probabilmente, ma come dice Miles, "La volontà di sopravvivere non può essere negata", anche se non è più il nostro tempo, la nostra città, il nostro mondo.

 Il finale del libro rovina secondo me la metafora, bisognava essere più crudeli. O forse sono io che non ripongo una grande fiducia nella bontà e nel buonsenso altrui e anche questo strano vento passerà tra qualche anno, come tanti, nel bene e nel male prima di lui.

Ps. Il libro ovviamente mi è piaciuto!

mercoledì 22 marzo 2017

Presentazione il 25 Marzo, ore 19:00 Bologna alla libreria Igor! La mia autarchica locandina.

Domani nuova recensione, intanto ne approfitto per tediarvi con la mia presentazione della settimana.

 Il 25 sarò a Bologna, alla libreria Igor, in via Santa Croce 10/ABC c/o Vivaio urbano.

 E' una bellissima e storica libreria LGBT che si trova all'interno di un vivaio, molto grazioso e ovviamente partecipa all'iniziativa Librerie in fiore.

 Oltre alla mia fausta presenza alle ore 19:00, ci saranno anche dei miei disegni esposti, così chi è interessato potrà vedere dal vivo le opere del mio ingegno.

 Intanto eccovi la locandina. Poiché sono autarchica, noterete che non vi è traccia di photoshop e neanche di paint. Non so, a me piace più così.


martedì 21 marzo 2017

Un nuovo spettro si aggira per le librerie: la carta del docente! "App Docenti Horror story", un fumetto a base di Falstaff, sdegno e scarsa comprensione del testo.

 Finalmente sono riuscita a terminare un fumetto che volevo fare da tempo, ossia da quando lo stato ha rilasciato alla classe docente un bonus di 500 euro da spendere in materiale utile alla loro formazione, meglio noto come App Docenti.

 Il principio è lo stesso dell'App18, ma mentre i ragazzini devo riconoscere si sono rivelati una massa quasi sempre educata e sempre autonoma, i docenti si sono rivelati peggio di tutte le piaghe d'Egitto messe insieme.

 Devo dire che sono rimasta molto stupita perché davo per scontato che persone abituate a insegnare fossero più propense ad apprendere, anche se per apprendere intendiamo contorte e tediose procedure burocratiche.

 In secundis pensavo che sapendo come ci si sente a dover difendere il proprio ruolo da genitori a quanto pare sempre più stressanti, fossero ben più gentili nei confronti del prossimo.

 Ovviamente non voglio generalizzare, ma non me la sento neanche di dire che si è trattato di casi sporadicissimi, purtroppo i drammi descritti nel fumetto di cui sotto si sono verificati di sovente (e molti librai su fb hanno confermato che è successo in ogni dove anche a loro).

 Metto inoltre le mani avanti in un altro senso: io fumetto solo cose realmente avvenute, quindi se quello che leggerete dovesse non piacervi, io non c'entro nulla, sono solo un'umile ambasciatrice della realtà.
 Siete pronti? Siete terrorizzati? "App Docenti Horror Story"!






domenica 19 marzo 2017

La nobile arte del saper lasciare andare. Quando si indugia troppo al lungo in ritorni impossibili, la vita rischia di sfuggirci tra le mani: la metafore de "La seconda vita di Naoko".

 C'è una puntata di Grey's Anatomy che mi torna sempre in mente. 

 Callie, l'ortopedica che molte puntate dopo si scoprirà lesbica, è stata lasciata dal marito per un'altra e non riesce a farsene una ragione in nessun modo.

 All'ospedale arrivano due donne che si sono ferite in una sorta di battaglia tra spose: c'è un abito nuziale a cui entrambe sono attaccate, quella che rimarrà attaccata per ultima avrà il matrimonio spesato da non so quale sponsor.

 Per tutta la puntata, nonostante le ferite e le preghiere dei compagni, nessuna delle due molla il colpo. Poi a un certo punto Callie sbotta "Basta! Bisogna capire quando è finita! Bisogna lasciar andare!".

 Molte puntate di Grey's Anatomy sono costruite in modo che l'assurda vicenda clinica che fa da ossatura alla storia, sia in realtà una sorta di allegoria dei problemi che attraversano i dottori protagonisti.

 Del resto il successo di questa serie, che potenzialmente è un Beautiful con un tasso di morti ancor più elevato, sta proprio in questo espediente: l'incredibile capacità di usare la medicina come metafora della vita.

 Questo episodio mi è tornato in mente con forza incredibile, leggendo un libro che avevo preso senza, in verità, moltissime aspettative: "La seconda vita di Naoko".

 Le non aspettative erano dovute al fatto che gli autori orientali sono potenzialmente assai morbosi.

 Robe che uno scrittore occidentale affronterebbe con circospezione, ansia  e qualche cicchetto di vodka, per loro (forse c'entrerà il famoso senso di colpa cristiano) è pane quotidiano.

 "La seconda vira di Naoko" di Keigo Higashino (di cui avevo letto un giallo, "Impeccabile" che non mi era piaciuto per niente) aveva tutte le potenzialità per essere la roba più morbosa della terra.

 Narra infatti la storia di Heisuke, un operaio meccanico, che un giorno riceve una tristissima telefonata: sua moglie Naoko e sua figlia di 12 anni, Monami, sono state coinvolte nell'incidente di un bus in montagna.
 Heisuke si precipita sul posto, ma niet, quando arriva, sua moglie Naoko spira mentre sua figlia Monami sembra aver subito dei danni cerebrali irreversibili.

 Invece Monami si sveglia miracolosamente. Ma. C'è un MA grosso come una casa. Monami si risveglia infatti con lo spirito di Naoko. Quindi corpo della figlia, anima della madre.
 Capite voi che c'era da spalancare la porta dell'inferno.

 Invece Higashino dimostra una misura, una gentilezza e una sensibilità incredibili.

 La domanda di fondo è molto potente e inquietante: cosa accadrebbe se vostra moglie si reincarnasse in vostra figlia?

 Higashino trasforma un tema che poteva essere foriero di tabù e inquietudini fastidiose in una metafora del non saper lasciare andare.

 Heisuke infatti è un uomo molto innamorato della moglie, onesto, incredibilmente retto, e decide che tutto quello che può fare davanti a una situazione del genere è fingere di fronte a tutto il mondo che Monami sia viva, ritenendosi tuttavia sempre legato al vincolo matrimoniale con Naoko.

 Capisce anche lui che sua moglie è ormai fisicamente irraggiungibile, pur tuttavia non riesce a staccarsi in nessun modo dal sentimento che la unisce a lei.

 Naoko invece, dopo un attimo di comprensibile smarrimento, decide di sfruttare al massimo questa seconda possibilità. 


Non indugia molto sulla sua passata condizione esistenziale e neanche particolarmente sulla morte della figlia, il suo nuovo obiettivo di vita è pretendere tutto quello a cui come Naoko aveva rinunciato.

Keigo Higashino
 Se come Naoko era stata una studentessa nella media e aveva deciso di sposarsi abbastanza giovane con un operaio, come Monami decide di puntare al massimo: diventare medico, studiare nelle migliori scuole e condurre una vita diversa, migliore.

 Ed è questo "migliore" che Heisuke non riesce a comprendere.

 Per lui la vita che si era costruito con Naoko era già la migliore. Aveva un lavoro che gli permette di vivere dignitosamente, una moglie e una figlia amatissime, dei bravi colleghi, una vita piccola e piena di sacrifici, ma molto amata.

 Per lui, scoprire che Naoko si sentiva infelice è sconcertante.

 Eppure non riesce a lasciarla andare. Inizia a indagare sulle motivazioni per cui è avvenuto l'incidente in bus: perché l'autista era tanto stanco? Davvero faceva straordinari su straordinari? E perché se viveva comunque in una topaia con la sua seconda moglie?

 Per Naoko rinuncia a un nuovo amore e inizia a essere ossessionato dai nuovi compagni, dai ragazzi con cui Naoko va a scuola e con cui condivide la vita piena di soddisfazioni che si sta costruendo.
 E' la cronaca di un disamore raccontata in modo estremamente originale.

 Naoko si allontana freddamente ed Heisuke non vuole lasciar andare.

 Come finisce ovviamente non posso dirvelo, ma fino all'ultima riga tiene sospeso quel senso di tristezza e di profonda contrizione che avviene quando qualcuno che conosciamo ci chiama per dirci: "Lei (o lui) non mi ama più".

 E tu non sai mai cosa dire, perché hai le sue stesse domande: come può qualcuno che prima ti adorava come la luna e le stelle, smettere di farlo? Quale insondabile mistero si cela sotto questo inspiegabile mutamento?

 La freddezza di Naoko lascia supporre che sarebbe avvenuto comunque, incidente o meno, stramba situazione o meno, sarebbe comunque finita così.

Lo si comprende anche dal finale, quando diventa chiaro che nonostante tutto Heisuke non è mai riuscito a lasciar andare e la sua prima e unica vita è andata ormai sprecata.
 Un errore in cui in molti indugiano.

 Qualcuno di voi lo ha letto? Testimoniate!

Recap da tema delle elementari delle due presentazioni di Bergamo e Genova e BEN DUE VIGNETTE fresche fresche!

 In questi ultimi giorni non ho scritto, ma ho girato molto.
 Il 16 sono stata a Bergamo, il 17 a Genova e anche se giri pluristancanti sono stati bellissimi!


A Bergamo mi sono state donate le polentine con gli osei, questi dolcetti orobici che poi sono quella specie di montagnola gialla a cui mi aggrappavo nella locandina dell'evento.

 E' una sorta di pan di spagna ripieno di marmellata, ricoperto da marzapane molto zuccheroso, con questi uccelletti di marzapane al cioccolato sopra.


 A Genova invece, sono stata ospite della fumetteria Comics Corner, un posto fantastico.

 Lo avrei detto anche se non mi avessero ospitato lo giuro: una fumetteria ariosa, dove si gira bene, si riescono a scegliere i fumetti senza essere stipati in tre metri tre, con una selezione e un'offerta ottime.

 Ivi mi sono stati donati dei meravigliosi biscotti con Chtulhu sopra (allego prova fotografica) ed è successa la tipica cosa che mi è sempre successa coi genovesi che ho conosciuto nella mia vita: ti dicono tutti che sono chiusi e mugugnanti e poi sono le persone più generose e accoglienti della terra.

 Genovesi, qui o c'è una falla nel sistema che mi fa conoscere solo i vostri esemplari migliori oppure avete una percezione un po' distorta di voi stessi (clamorosamente distorta in peggio!).

 Ringrazio quindi Simone, Ilaria e Giordana della fumetteria! Annamaria e i suoi pupi per l'ospitalità notturna e i miei amici genovesi che sono passati.

 In ogni caso, no, non c'è solo la parte del tema da gita delle elementari, ma anche qualcosa di più sugoso

Mentre me ne stavo lì, ho prodotto ben due vignette con le perle che mi sono state donate dai due mastri fumettieri, Ilaria e Simone, che sono poi i due protagonisti.

 Ecco la prima. Cose realmente avvenute! Lo giuro! "A strisce".



E la seconda (che personalmente favorisco). Cose realmente avvenute! Lo giuro! "Massacri".




mercoledì 15 marzo 2017

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "La cultura giudaico-cristiana".

 Ed ecco, dopo una lunga giornata che doveva essere molto fruttuosa e non lo è stata (ho anche fatto un fumetto su queste giornate che deve essere solo completato e postato, a dio piacendo ce la farò), la vignetta del giorno.

 I manga, i fumetti giapponesi (più o meno) sono spesso osteggiati dai genitori (anche i miei lo facevano), diffidenti verso una cosa che non conoscono e che la tv, con trasmissioni discutibili, cerca di fargli passare come un ricettacolo di perversione è violenza.

 E' vero esistono gli hentai e anche manga molto violenti, ma sono una parte di un universo molto più grande, pieno di perle, di serie divertenti e di piccoli capolavori poetici.

 In ogni caso non è molto comune trovare genitori che li comprino per i propri figli, di certo non ho mai immaginato che la molla potesse essere la motivazione della vignetta.

 Cose realmente avvenute! Lo giuro!  "La cultura giudaico-cristiana"!


Presentazioni del verdeggiante tomo il 16 Marzo alla Feltrinelli di Bergamo, il 17 Marzo Genova alla fumetteria Comics Corner!

 Allora, nonostante la dolce metà allettata e le presentazioni, i prossimi tre giorni (se oggi sarò molto laboriosa) si dovrebbero vedere su questi schermi vignette, recensioni e infine il promessissimo fumetto sui dolori provocati dalla temibilissima App Docenti.

 Oggi comunque vi sarà di sicuro una vignetta, intanto vi lascio con uno dei post pubblicitari a uso di chi non viene già da me martellato sui social (e di quelli che magari lo sono ma fb mi dà una copertura di appena 2000 persone sui più di 9000 che mi seguono per convincermi con coercizione a comprare pubblicità, momento di protesta).

 Ecco a voi la locandina per l'incontro di domani 16 MARZO alle ore 18:30 alla Feltrinelli di Bergamo, Via XX Settembre 55 (per i bergamaschi provetti: sì, è il megastore in centro).





Mentre il 17 MARZO dalle 17 alle 20, quindi moooolto tempo sarò alla fumetteria Comics Corner di Genova, Via Fiasella 62/R!



sabato 11 marzo 2017

Cose realmente avvenute! Lo giuro! "In che senso".

Dunque, sta per iniziare, domani, la grande settimana delle presentazioni (e del lavoro nel mezzo).
 Cercherò di star dietro al blog, ma la vedo dura. 
Per compensare vi lascio con una vignetta realmente avvenuta di quelle che sembra un piccolo atto di Achille Campanile.
 In coda la locandina promemoria dei vari incontri di questo Marzo.
 Cose realmente avvenute! Lo giuro! "In che senso".



E la locandina! Perdonate il martellamento.




mercoledì 8 marzo 2017

Poniamo che ci sia un popolo. L'otto Marzo ha senso festeggiare? Per me sì. Vite di tre donne italiane che hanno cambiato la storia e che la storia non deve dimenticare.

 Poniamo che ci sia un popolo.
 E poniamo che ci sia un altro popolo.

 Entrambi i popoli hanno caratteristiche molto simili, ma uno dei due è fisicamente più forte dell'altro. I due popoli sviluppano un rapporto simbiotico senza il quale non riescono a sopravvivere gli uni senza gli altri.

 Il popolo più forte però, in ragione della sua forza, decide di estromettere quello più debole dalla gestione del pianeta nel quale tutti vivono: il popolo debole deve sottostare alle decisioni del popolo forte, deve curare la loro prole e deve comportarsi secondo un complesso codice che non è per niente funzionale alle loro vite, ma risponde a una serie di fantasie (generalmente negative o prevaricatrici) e convinzioni radicate che ha il popolo forte.

  Tutte fantasie e convinzioni che hanno a che vedere, generalmente, col valore della propria forza che si esprime soprattutto con la capacità di dominare il popolo debole.

 Il popolo debole vorrebbe ribellarsi, ma è appunto fisicamente più debole e teme per i propri piccoli, perciò sopporta, fidando nella benevolenza del popolo forte, in verità molto arbitraria.

 Non studia, non dirige, non suona, non canta, non crea, non può disporre della propria esistenza e può svolgere solo determinati mestieri.

 Se si sente portato per altre mansioni, gli sarà concesso di svolgerle solo in casi eccezionali, quando ne andrà della sopravvivenza dei suoi piccoli e vi sarà un inesplicabile vuoto del potere forte.

 Gli anni passano. Le società si evolvono e l'aggressività del popolo forte sembra domata a tratti, (ogni tanto però esplode qualche conflitto tra le regioni in cui i popoli hanno deciso di stanziarsi e che porta a insensate vicendevoli carneficine). 

 Il popolo debole, sostenuto anche da qualcuno del popolo forte che inizia a provare un certo imbarazzo nel trattare l'altro in modo parassitario, inizia a reclamare dei diritti.

 Non è giusto che solo per una debolezza fisica, venga negata loro una vita come il popolo forte! 

 Hanno uguali diritti sulla terra ed entrambi la abitano dalla notte dei tempi! Inoltre, forse non saranno forti come il popolo forte, ma sono loro a generare i nuovi piccoli dei due popoli, una faccenda non proprio secondaria.
 Il popolo forte cerca ogni espediente per impedire al popolo debole di uscire dal proprio stato di minorità, ma diventa sempre più difficile, così, quando diventa impossibile, alcuni di loro iniziano a uccidere chi non riescono più a trattenere in loro possesso.

 Altri, usano mezzi diversi. Capiscono che uccidere il popolo debole non è funzionale e comunque non è piacevole, così iniziano una martellante coercizione: convincono il popolo debole che se nella storia sono sempre stati deboli un motivo ci sarà, e quel motivo è che non sono abbastanza.

 Certo, sono molto utili, fanno piccoli, hanno una funzione nella società del loro pianeta, ma sono sempre meno del popolo forte. Sono, una sorta di versione depotenziata e come tale deve essere trattata: con più rispetto magari, ma sempre tenendo presente che in nessun caso il popolo debole può arrivare dove è arrivato il popolo forte.

 Quando qualcuna di loro riesce, si tenta di nasconderlo. Quando non si può nascondere si ridimensiona tentando di convincere il popolo debole che ci sono state delle facilitazioni speciali e che non è assolutamente un modello da prendere ad esempio.

 Chi nasce debole, muore debole.

 E comunque non è così bello essere deboli? Non ci sono tante cose meravigliose che ti spettano solo se fai parte del popolo debole?

 Tuttavia, si domanda parte del popolo debole, se sono così meravigliose come mai appena qualcuno del popolo forte prova ad avvicinarglisi viene immediatamente deriso ed emarginato dagli altri?

Se siete arrivati fin qui avrete forse capito il senso di questa mia fiaba fantascientifica per adulti (che lo dico è volutamente estremizzata, fantascientificata ecc ecc come espediente per portare alla luce la follia della disparità di genere, uomini vengo in pace).

 Ebbene, per mostrare che il popolo debole può fare esattamente le stesse cose del popolo forte, eccovi tre delle donne italiane citate nel libro pubblicato recentemente da Mondadori "Storie per bambine ribelli".

  Si tratta di un libro che ha visto la luce grazie al crowfunding e che racconta in breve 100 vite di 100 donne che hanno brillato, sono state innovative, hanno combattuto per emergere in qualsiasi campo. Ci sono politiche, scienziate, artiste, sportive, musiciste, attiviste di tutto il mondo e molte storie non le conoscevo neanche io.

 Le tre di seguito non le conoscevo neanche io (avevo sentito parlare della prima forse). E' giusto che il mondo sappia!


ALFONSINA STRADA:

 Era il suo cognome da sposata (in prime nozze), ma non si può evitare la facile battuta: certe volte il destino è nel nome.

Alfonsina Strada
 In un paese dove le sportive donne sono ancora considerate dilettanti e non professioniste, ebbene sì, Alfonsina Strada compì un'impresa iperbolica per i suoi tempi: partecipò al giro d'Italia.

 Correva l'anno 1891 e Alfonsina nasceva in quel dell'Emilia (spero di non fare la solita confusione tra Emilia e Romagna perdonatemi) da una famiglia di contadini che ebbe numerosi figli.
 Un giorno il padre portò a casa una sorta di bicicletta rottame che però funzionava ancora e tra la bici e Alfonsina fu amore immediato, imperituro e perpetuo.

 Appena poteva saliva in bici e partecipava alle competizioni di nascosto dai suoi genitori.
 Tenete presente che era un'epoca in cui Lombroso diceva che la bicicletta avrebbe favorito gli omicidi (uno poteva scappare più in fretta, in stile Sante, l'amico bandito di Girardengo) e in cui, soprattutto, veniva considerato sconveniente che le donne si ponessero OMG a cavalcioni di un mezzo di locomozione che rischiava di scoprire le gambe.

 Considerate che la povera Annie Kopchovsky, una lettone emigrata negli Stati Uniti a fine '800, nel 1894 aveva percorso l'intero pianeta in bicicletta rispondendo alla sfida di due ricconi americani che scommettevano che una donna non ce l'avrebbe mai fatta.
 La poveretta aveva percorso buona parte della tratta con gonnelloni ingombranti e pesanti, prima di passare, nello scandalo generale ai pantaloni.

 Comunque, Alfonsina non era sostenuta dal padre in queste sue aspirazioni, ma fortunatamente, giovanissima, si sposò con Luigi Strada che oltre al cognome, il giorno delle nozze le dona proprio una bicicletta.

 Iniziano quindi duri allenamenti e le prime corse importanti, alle quali riesce a partecipare solo in ragione di buchi nel regolamento: era così imprevedibile che una donna vi prendesse parte che nessuno aveva pensato a vietarlo esplicitamente.

 Fu proprio grazie a questa falla nel regolamento che riuscì a iscriversi al Giro d'Italia del 1924. 


Riesce a portare a termine quattro tappe, ma alla quarta giunge fuori tempo massimo.

 Molti pensano sia finalmente la scusa buona per estrometterla, ma il direttore della Gazzetta dello Sport, Emilio Colombo, decide di permetterle di continuare a correre, anche se non più ufficialmente in gara.

 Fu comunque una dei trenta corridori, su sessanta, a completare il giro.

 Negli anni successivi, rimarrà vedova e risposerà un altro corridore (con cui gareggerà in Russia!), vedrà negarsi l'accesso ai successivi giri d'Italia e aprirà infine un'officina per bici a Milano.
 Morirà a 68 anni, in sella alla sua moto.

 Per saperne di più:

-  "Il ciclismo nel delitto" di Cesare Lombroso ed. La Vita Felice
- "Il giro del mondo in bicicletta" di Peter Zheutlin ed. Elliot (sulla storia di Annie Kopchovsky)
- "Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada" Ediciclo editore


LELLA LOMBARDI:

Volente o nolente, negli anni ho visto un'ingente quantità di Gran Premi di Formula Uno.

  E' l'unico sport per cui mio padre (tifoso del Napoli, ma non particolarmente appassionato di calcio, esclusa la Nazionale), si sveglia alle quattro del mattino per vedere gran premi sparsi per mezzo mondo e per il quale comprò, nella desolazione delle nostre vacanze in Sardegna senza niente, un prototipo di tv portatile (era una sorta di aggeggio lungo una ventina di cm che si portava in giro, stranissimo, non l'ho mai più rivisto).

Lella Lombardi
 Perciò, niet, alla fine a furia di guardarla per anni, se mi capita, lo faccio anche io senza particolare noia.

 Mi ha molto stupito scoprire che non esiste divieto per le donne di correre con i colleghi maschi (pensavo esistessero due campionati separati) e che anzi, è rimasta nella storia una pilota italiana: Lella Lombardi.

 Maria Grazia Lombardi detta Lella, era una giovane piemontese che, nata nel 1941, che a 18 anni già trasportava le carni che il padre macellaio inviava ai negozi.

 Partecipò a numerosissime gare in diverse classi, compiendo una lunga gavetta, ma rimane nella storia per un anno fatidico: 1975.

 Quell'anno si qualificò per ben 10 volte ad altrettante gare e soprattutto, nel drammatico giro di Barcellona, al circuito del Montjuich (che non venne poi più utilizzato) fu la prima e unica donna della storia della Formula uno ad andare a punti.

Era un circuito pericoloso che non garantiva le adeguate misure di sicurezza, molti piloti volevano disertare, ma the show must go on, così il giorno della gara solo alcuni si convinsero a farlo davvero.
 Poi al venticinquesimo giro, il pilota Rolf Stommelen uscì di pista uccidendo quattro spettatori e ferendone molti altri.

 Il giro fu fermato e si decise di dare i punti dimezzati a seconda della posizione al momento dello stop.

 Lella Lombardi era sesta, le sarebbe spettato un punto, gliene diedero mezzo. 
 Quel mezzo punto rimane l'unico mai conquistato da una donna in Formula uno. 
 Dopo di lei, solo altre tre donne riuscirono nell'impresa di correre nella classe maggiore, l'ultima fu Giovanna Amati nel 1992, lo stesso anno in cui morì Lella Lombardi.

Purtroppo non esiste nessun libro specificatamente dedicato a lei, ma la sua storia è raccontata in "Più brave per forza" di Cristina Falco ed. SEB27.


CLAUDIA RUGGERINI:

 E' particolarmente bello che nel libro venga citata la figura di Claudia Ruggerini.
 Lo è perché fu una partigiana e perché le partigiane c'entrano molto coi festeggiamenti dell'otto marzo. 

Ogni anno infatti tocca assistere alla sagra dell'ovvio con gente che si dichiara sconcertata e addirittura offesa dall'esistenza della giornata internazionale delle donne.

 Quel pensiero pregnante che è "Non serve a nulla un giorno, si deve lottare per i diritti tutti i giorni dell'anno".

 Mi scuserete se uso una non elegantissima forma romana, ma mi viene sempre da dire "Grazie al caxxo" che serve tutto l'anno, ma non è la lotta dei diritti in un giorno solo lo scopo della festa delle donne.

 Lo scopo è dire che ci siamo, ricordare e gridare che le disuguaglianze esistono, anche se per molti uomini tutto è già stato superato (molti lo dicono in buona fede, trovando normalissimo che le compagne, per dire, si smazzino oltre a un lavoro full time anche la totale gestione della casa che a loro non tange), anche se per molte donne è quasi un insulto (un antico adagio femminista dice, a ragionissima, che le donne sono le più grandi custodi del patriarcato).

 La festa della donna ha origini politiche nobilissime e persino la mimosa fu scelta da Teresa Mattei, donna più giovane della costituente e partigiana, che nel 1946 decise per le prime celebrazioni della festa nel dopoguerra che sarebbe stato bello che alle donne si regalassero mimose, fiore di campagna, che anche i poveri potevano trovare con facilità, brillante, luminoso e gentile, proprio come le donne (sue parole dall'intervista rilasciata a la Repubblica anni fa).

 Claudia Ruggerini fu la partigiana Marisa.

  Suo padre, ferroviere, venne massacrato dai fascisti nel '34, sua madre si impegnò per farla studiare e lei divenne medico. Negli anni '70 si batté perché svanisse un orrore che alcune scuole stanno cercando di ripristinare: le classi differenziali.


Cos'erano? L'idea era stipare tutti i bambini disabili e con difficoltà di apprendimento serie in un'unica classe, poi ci finirono anche i ragazzini che magari venivano dal sud e parlavano solo dialetto o quelli particolarmente indisciplinati o provenienti da situazioni familiari difficili.

 Delle classi ghetto sostanzialmente (io le ignoravo finché anni fa non vidi uno sceneggiato Rai che mi piacque molto "Raccontami", penso una delle fiction Rai migliori degli ultimi decenni).

 Lei, che si era laureata in medicina ed era diventata neuropsichiatra, si batté strenuamente per l'abolizione.

 Durante la guerra aveva partecipato attivamente alla resistenza come staffetta e combattente. Fu tra coloro che il 25 aprile liberò la redazione de Il corriere della sera.

 La sua storia è tra quelle raccontate nel libro di Marco Rovelli "Eravamo come voi. Storie di ragazzi che scelsero di resistere" ed. Laterza.




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